Tu non c’eri

E, poco dopo i vent’anni, mi sono stufata.vasco-rossi-concerto-670x274
Cioè, dopo i vent’anni mi sono resa conto che mi ero stufata, ma magari era successo prima e me ne sono accorta solo quando, dopo qualche anno di università, il suo modo troglodita di emettere suoni ha cominciato a irritarmi in modo irreversibile.
Perché usare sempre quel maledetto “te” come soggetto?
Perché, poi, continuare, dopo tanto tempo sulle scene, dopo aver girato mezzo mondo e aver parlato con chissà quante altre persone, con quegli urletti “eh!”, “seee”? Sempre. Continui. Come se l’unica vocale della lingua italiana fosse la E.
E poi perché continuare a cannare tutti quei congiuntivi?
Snob e spietata, con pochi anni da studentessa fuorisede alle spalle, avevo già la mappa esatta dei dialetti italiani in testa e non tolleravo nulla che non fosse pronunciato o scritto in un italiano più che perfetto.
Non capivo un cazzo della vita, semplice.
Avevo talmente paura di essere colta in fallo che sventolavo la mia bacchetta da maestrina ovunque e con chiunque pur di dimostrare (a chi?) che io sapevo, che io ero una universitaria, ci tenevano un sacco a casa a questa cosa, e pur di accontentarli ho sfiorato l’ipercorrettismo dei semicolti.
No, ok, non esageriamo, però ho iniziato a rompere le palle, spesso e inutilmente. E devo ancora smettere.
Non conoscevo ancora Crêuza de mä; non comprendevo ancora quanto patrimonio stessi perdendo io e stesse perdendo il mondo dimenticando tutto il bel dialetto che mi veniva dalla nonna materna. Sì, è bello dire così, parlare dei dialetti, delle lingue, del patrimonio culturale italiano intrinseco al linguaggio, si vede che ho studiato, eh? Ma il punto non è neanche questo, non è questione di dialetto quella zeta moscia per cui ci prendono in giro dappertutto, quel “vè!” che conclude così di frequente le nostre frasi, che non sono né in dialetto né in italiano, non c’entra il dialetto con i mille “seeee” e gli “eeeh” di Vasco, mille seee e mille eeeh che sono di volta in volta esclamativi, interrogativi, stupefatti, provocatori, incazzati (con le zeta rigorosamente dolci anche e, anzi soprattutto, se sono due). No il dialetto non c’entra, non così tanto, ecco.
Io adesso vorrei anche parlare di quali furono le prime voci a cantare rock in italiano, vorrei parlare dell’impareggiabile cantautorato nostrano, ma il punto non è nemmeno questo.
Il punto è che se hai dodici anni e tua cugina che vive a Milano e per te è il Verbo incarnato e ti spiega esaltata che nella tua città esiste il più grande musicista di sempre, in qualche modo tu ci credi. Ci credi e ci cresci.
Io non mi sono mai sognata, a dodici anni, quando la musica ha iniziato a entrare nella mia vita in modo conscio, di supporre o immaginare che Pink Floyd, Inti Illimani, Dire Straits, Vasco, De Gregori, Toto, Dalla, Bob Dylan, Leonard Cohen, potessero essere schifezze. Con la musica si cresce come con il latte dalla tetta, come con la linguamadre, impari a distinguere i suoni e i sapori a partire da quello con cui sei cresciuto. Non ha alcuna importanza che tu poi da adulto dedichi tutta la tua anima, il cuore e i timpani unicamente ai canti bifonici Xöömej, lo fai, da adulto, perché scegli di approfondire curiosità culturali, ma quando parte Africa dei Toto, o quando l’orologio di Time dei Pink Floyd comincia a ticchettare o quando, in un live, senti quell’ “eeehhh!” che significa poi “sì, ragazzi, sono ancora qui tra voi”, ecco in quei momenti il cuore salta un colpo e tutto il tuo essere viene risucchiato in un balzo temporale che neanche la macchina del tempo!
Ed ecco, marito mio, amore mio, tu non c’eri, quando torno a quei tempi, a quei concerti tanto attesi, che andavi a mezzogiorno col panino e la bottiglia dell’acqua per fare la fila prima degli altri, e spingere dopo, e passare i controlli della polizia con la frenesia di poter correre più in fretta possibile per arrivare sotto il palco, proprio sotto il palco, per vedere meglio, per essere lì, esserci davvero, vedere coi tuoi occhi, non attraverso un cazzo di maxischermo. No non c’eri.
Modena era la città della musica, con il suo stadio Braglia e le tante polemiche, soprattutto quando vennero gli U2, che, leggenda metropolitana vuole, avessero il volume così alto che in alcune abitazioni lì vicine si spaccarono persino i vetri.
Ma la storia era sempre quella: Vasco, Sting, U2, Pink Floyd, sono passati tutti per di lì e noi c’eravamo. Noi modenesi. Tu no. Tu non solo non sei modenese, ma sei anche di un’altra generazione, per te solo Jimi Hendrix e Deep Purple sono musica. Be’, non è così. Non è così e te ne stai accorgendo ora che hai di nuovo tempo per riprendere in mano la chitarra.
Il mondo della musica non si è fermato negli anni ’60 e, te lo giuro, Modena è stata l’ombelico del mondo per parecchi decenni. Non sto discutendo di gusti musicali, ma del clima di fermento in cui uno cresce e impara.
E in quel clima c’era anche lui, Vasco.
Che da ragazzina adoravo, non so quanti concerti ho visto, molti. In uno avevo anche amici che erano entrati a lavorare nello staff di sicurezza.
La cosa importante era conoscere a memoria tutti i testi delle canzoni.
Cosa avrebbe cantato? Be’, ovviamente i classici non mancano mai: Bollicine, Albachiara, Vita Spericolata, ma poi c’erano gli album che erano appena usciti e che noi ossessivamente ascoltavamo nei nostri walkman, subito, dal giorno stesso in cui usciva nel negozio di dischi (quel genere di negozi che ora è in via d’estinzione) fino al giorno del concerto.
E, fondamentale: accendino, carico e funzionante. Per i brani romantici, per creare l’atmosfera di cui tutti noi avevamo bisogno, anche lui, Vasco, ne aveva bisogno, sicuro.
Ricordo la sete, il pomeriggio, sotto il sole cocente, e le lacrime artificiali da mettere per le lenti a contatto “Anche tu porti le lenti a contatto? Non è che potresti prestarmi le tue?, io le ho finite prima…”. Be’ poi, inutile dirlo, c’era chi si faceva le canne, chi si dissetava con la birra (mai capito come facessero, mentre si moriva di caldo, a dissetarsi davvero bevendo birra).
I cancelli li aprivano anche abbastanza presto, e ti toccava stare tutto il pomeriggio a bivaccare sul prato antistante il palcoscenico. Era bello, si faceva amicizia, c’era gente che veniva da fuori, che non avresti rivisto mai più, ma con cui ovviamente scambiavi bigliettini pieni di numeri di telefono destinati a rimanere poi lì sul prato e a essere raccolti il giorno dopo dagli addetti al ripristino.
Ma non è che l’organizzazione ci lasciasse lì a cuocere al sole senza pensare a noi, no no, c’era musica che usciva dagli altoparlanti già sistemati, passavano in rassegna tutti i grandi successi di allora, più di tutti al Braglia di Modena, non mancava mai Tracy Chapman. Be’, Modena è sempre stata schierata, e Tracy Chapman ne era il simbolo in quegli anni. Tante keffiyeh, tante bandiere, e le maglie con la foto di Vasco, o dei Pink Floyd (era il tempo di A Momentary Laps of Reason), o degli U2, o di Sting (primo mitico tour da solista, con musicisti da paura).
Sì, va be’, ma non divaghiamo. Tu non c’eri quando, incazzata come una iena, io cercavo di confrontarmi con un mondo di adolescenti che avevano vite molto più ordinate e normali della mia.
Nessuno c’era a dire il vero. E sai chi c’era? C’era Vasco. C’era Vasco con Albachiara, Jenny è Pazza (dio quanto ho pianto sulle note di Jenny è Pazza). Quante volte l’avrò ascoltata? Il disco ad un certo punto emetteva un fastidioso fruscio e sapevi di dover cambiare la puntina al giradischi o di aver sputtanato l’LP. Ma non era l’unica, anzi, qui io andavo davvero in visibilio e ballavo e urlavo a squarciagola e la vicina di casa si turava le orecchie e sopportava pazientemente che il disco finisse e che io mi stancassi

Metteteci Dio
Sul banco degli imputati
Metteteci Dio
E giudicate anche lui
Con noi
E difendetelo voi
Voi
Buoni Cristiani

Portatemi Dio
Lo voglio vedere
Portatemi Dio
Gli devo parlare
Gli voglio raccontare di una vita
Che ho vissuto e che non ho capito
A cosa è servito
Che cosa è cambiato
Anzi
E adesso cosa ho guadagnato
Adesso voglio esser pagato

(urletti alla Vasco)

Un giro di basso da brividi lungo la schiena e io a pizzicare corde immaginarie nel vuoto (mamma quanto amavo il suono del basso!)

Portatemi Dio!

No, non c’eri, e quindi non credo tu possa davvero capire cosa significa per me vedere quel palco enorme che cresce nel cuore di Modena e io che posso guardarlo solo da lontano, solo da Facebook (avrei mai immaginato allora di vedere Vasco tramite una cosa chiamata internet?) perché sono qua che non sto neanche bene, perché comunque non avrei i soldi per permettermi un biglietto che non ha proprio più i prezzi popolari che aveva allora, perché sono dannatamente lontana!
Sì, perché sono lontana, perché, te lo garantisco, se fossi lì, a Modena, nella mia città, a casa mia, forse al parco Enzo Ferrari ci passerei tutti i giorni a vedere come procedono i lavori. Come fanno i vecchi con i cantieri, sì, uguale. Con orgoglio. Sì, anche se adesso ascolto più volentieri Philip Glass, gli Offlaga Disco Pax, Joni Mitchell, Paolo Conte, Keith Jarrett, anche se adesso quando l’iPod mi passa Vasco io salto in avanti e passo al brano successivo, non conta. Non conta!
Perché Vasco era con me mentre crescevo, mentre percorrevo quelle strade che mi hanno vista ridere, piangere, illudermi e rimanere delusa, faticare prima del tempo, arrancare per difendere il mio diritto di essere quella che sono poi diventata, un giorno dopo l’altro, con Brava Giulianelle orecchie ad incoraggiarmi. C’era Vasco con me.
Sono stati tanti anni, tanti tanti anni. Certo, non c’era solo lui, ma lui era dei nostri; era, è, uno di noi.
E questo palco immenso lo dimostra. È venuto qui (dovrei dire, visto che io sono emigrata, visto che sono lontana “è andato là”, ma io mi sento lì, io sono lì, sono a Modena mentre guardo quelle immagini, quegli uomini al lavoro), qui, tra noi, i suoi concittadini. Noi che se anche abbiamo cambiato strada non ci siamo mai, un solo attimo, dimenticati di lui, mai. Noi che siamo Vasco perché abbiamo tutti nell’anima un pezzetto della sua anima, quella che abbiamo assorbito come spugne da piccoli quando imparavamo le sue canzoni a memoria, tutte, e le sapremmo ripetere anche ora, senza esitazione. Non solo quelle che voi, voi che non siete modenesi, voi che non avete condiviso questo fenomeno avete sentito, e magari distrattamente, solo perché erano dei buoni fenomeni di vendita, no, noi le abbiamo imparate tutte, anche quelle che belle lo erano davvero e che nessuno conosce a parte noi, con tutte le pause giuste, e i “vè” e gli “eeeh”, e gli stacchi. Ecco perché noi siamo Vasco.
Adesso zitto un attimo, guarda, guarda! Ci siamo! Ah no… Il concerto è domani, oggi è solo il 30 giugno, ma allora questa cos’è? Una prova generale? Dio mio, guarda che bello! Che bello quel sole che sorge come un’alba impossibile, come il sorgere del sole visto dallo spazio!
Sarà così che inizierà il concertone. E tu non capisci, non lo pretendo, ancora una volta siamo soli io e Vasco, mentre guardo quel sole sorgere e due lacrime scendono senza il mio permesso.
Mi metto sotto le coperte e guardo i video che cominciano a girare grazie ai vari nugoli di fan che sono accampati lì da giorni e che si sono goduti anche le prove. Io sono lì, sono lì con voi, ragazzi. Posso sentire l’odore d’erba del prato calpestato, e, sì, anche l’odore dell’altra erba, certo, e posso sentire l’odore di sudore, perché sono giornate calde e qui, accampati ad aspettare ci si arrangia, posso sentire gli amplificatori di chi si è portato i lettori musicali:

“C’è qualcosa 
Che non va 
In questo cielo
C’è qualcuno 
Che non sa 
Più che ore sono
C’è chi dice qua 
C’è chi dice là 
Io non mi muovo
C’è chi dice qua 
C’è chi dice là 
Io non ci sono
Tanta gente è convinta che ci sia nell’aldilà 
Qualche cosa chissà?
Quanta gente comunque ci sarà 
Che si accontenterà…”

E sono lì, che ho una voglia feroce di cantare con voi a squarciagola, tanto da spaccarmi le corde vocali, come facevamo da ragazzini, che poi rimanevamo afoni per giorni. Sì, spaccarsi le corde vocali per sentire appena la propria voce sovrastare il suono che esce dal mega impianto che chissà quanto sarà costato e sentirsi un tutt’uno con la musica che impera e domina l’aria, mentre lei ti vibra attorno e dentro, e tu innalzi la tua voce in accordo con quella vibrazione che ti prende le viscere e ti rimescola lo stomaco e il cuore e ti riporta dove credevi che non saresti mai stato più, mai più. Sono lì con voi, vibro con voi, attendo con voi, ballo con voi, ho sete come voi, ho caldo come voi, e come voi me ne frego. Viva Vasco! Viva Modena! Viva la musica!
[…]
E la vita continua
Anche senza di noi 
Che siamo lontani ormai
Da tutte quelle situazioni che ci univano
Da tutte quelle piccole emozioni che bastavano
Da tutte quelle situazioni che non tornano mai
Perché col tempo cambia tutto lo sai
E cambiamo anche noi
E cambiamo anche noi
E cambiamo anche noi
E cambiamo anche noi!